UNA
VITA ALTROVE
Ritornavo a casa, ancora una volta, il dedalo di strade percorse, vissute, mi aveva
portato lontano per poi ricondurmi qui, da dove ero partito, come se il viaggio avesse
mutato ogni cosa intorno a me, per poi non cambiare nulla.
Attraversavo ancora una volta i vicoli stretti, lungo muri vecchi incrostati d'intonaco
nuovo,immerso nell'odore verde del canale, quello azzurrino della brezza e quello bianco
dei panni stesi.
Erano sensazioni che conoscevo da una vita, eppure mi accorgevo che anche quello era un
posto nuovo, che abbracciavo per la prima volta
Forse perché ogni città che hai
lasciato è sempre diversa da quella che ritrovi, e la prima immagine che hai di un luogo
ancora da percorrere non è mai quella che ti porti via, quando giunge il momento di
partire.
Ero a casa, reduce e straniero insieme, e avevo profondamente bisogno che quei tetti, e
quei gatti, e quei cortili mi riconoscessero, che mi facessero avere un messaggio diverso
da quello di tutti gli altri posti in cui ero stato, un'appartenenza.
Tendevo ogni mio senso, per cogliere quel niente che mi sarebbe bastato a pensare di
essere arrivato, di poter restare qui, tra l'umido dei campi, e l'ombra dei ciliegi, e
sentire tutto questo come mio.
Desiderio impossibile, perchè i luoghi non ci appartengono mai, siamo noi che
apparteniamo loro. Loro che, a noi nomadi che li percorriamo, regalano al massimo una
manciata di ricordi, di souvenir profumati ed iridescenti, da metter nell'anima, per non
scordarcene, poi.
Questa volta però il mio paese sembrava non avere nulla da regalarmi, taceva immobile, e
la sola cosa che sembrava suggerire era che dovevo andar via di là, perché non vi avrei
trovato niente. Svoltai nel vicolo, sul selciato strisciavano inconfondibili solchi di
biciclette, passaggio di bimbi, che probabilmente avevo visto l'ultima volta in fasce.
La signora Adele, invece, era là dove l'avevo lasciata, china sulle piantine di basilico,
con il grembiule imbrattato di terra e le sue cantilene a mezza voce. "Sempre dietro
a lavorare, eh?" "Oh, ma guarda lì, chi c'è!" Si alzò in tutta fretta e
barcollando uscì dall'orto per abbracciarmi "Il mio terremoto, che peste che eri da
piccolo, mi facevi disperare
Ma guarda adesso come ti sei fatto alto! Sei arrivato
oggi? Ti fermi tanto?
E lo sai di tua zia?" "No", ebbi solo il tempo
di rispondere, che riprese, meno male che il terremoto ero io
"Ah, povera
donna, se n'è andata l'anno scorso, via così, in pochi giorni
Come mai sei venuto
su solo adesso?".
Mi sconcertò la notizia, ma forse ancor più la sua domanda. Perché ero lì
me lo
stavo chiedendo anch'io, e mentre la salutai, declinando l'invito a pranzo, mi risposi che
avevo nostalgia di casa, o forse ero stanco di viaggiare, o forse, anzi, credo fosse
proprio così, avevo paura di andar via, di ritornare straniero.
Non è vero che esiste un tempo per tutto. O almeno, non sempre: ad esempio, non esiste un
tempo per partire, un momento che ti trascini via, senza lasciarti alternative, senza che
tu possa dire, o pensare: "Resterei ancora un po'".
Bisognerebbe avere qualcosa di grande da raggiungere per andare, senza rimpianti, senza
timori, senza tristezza, qualcosa che si chiami speranza: una vita, o un padre, o un
amore.
Ah, se avessi avuto il grande amore, ad aspettarmi in qualche parte di mondo, l'avrei
raggiunto senza indugi anche negli angoli più remoti, avrei smesso di cercare il passato,
avrei indossato il mio più bel sorriso ad affrontare il viaggio, solo in nome di quello
che mi avrebbe atteso al mio arrivo.
Avrei, avrei
Intanto non avevo nulla verso cui salpare, e nulla da concludere nemmeno
qui.
Continuai a girovagare per il paese, salutai in piazza alcuni vecchi amici, e brindai con
loro ai bei vecchi tempi, poi, sfinito dal viaggio, dai pensieri e dal bere andai a
dormire.
Avevo preso una stanza alla locanda, perché la mia vecchia casa, ormai decadente, era
stata abbattuta per far posto ad una villetta rosa pallido, elegante nota stonata nel coro
delle costruzioni circostanti.
Inutile dire che feci fatica ad addormentarmi, mi disturbava il letto troppo duro, l'umido
dei muri, il lamento dei gatti, coperto dalle chiacchiere ai piani bassi, superate a loro
volta dal rumore dei pensieri, sempre più confusi dalla stanchezza, sovrapposti a sogni,
infine spenti dal sonno.
Un attimo, ed era mattina.
Guardai il sole bruciare di arancio le tegole brune delle case, ancora addormentate,
mentre il fischio del treno, come un sibilo, come un richiamo, tagliava l'aria.
Non si vedevano i treni dalla locanda, e nemmeno dal resto del paese, bisognava uscire per
quasi un chilometro per raggiungere la stazione, e un lieve pendio nascondeva il tracciato
dei binari.
Il treno era lì, a pochi passi, ma non lo sapevi, o non te ne ricordavi, finchè un
lamento acuto te ne riportava l'immagine alla testa e al cuore.
Quella mattina sembrava proprio non voler smettere di fischiare, per tre volte si fece
sentire, forte, distinto, sembrava chiamare.
Chiamava me.
Credo che a volte bastino piccoli segni per farti capire una cosa grande, e che altre
volte ne servano di grandi per farti arrivare ad una cosa piccola.
Grande o piccola che fosse, avevo quella mattina, dopo tanto tempo, la consapevolezza di
quanto dovevo fare, del mio tempo, della mia vita: l'avevo compreso raccogliendo per
un'intera giornata i segni, sparsi per le vie, il silenzio del paese, che avevo dapprima
scambiato per indifferenza, la faccia bonaria di Adele, i sorrisi dimenticati degli amici,
e più di tutti in quel momento, la voce del treno, che mi aveva accompagnato dal primo
viaggio, e che ora mi spingeva ad un addio, o ad un lungo arrivederci.
Segni diversi che mi sussurravano con voci diverse le stesse parole, avere il coraggio di
crescere, di cercare la mia strada.
Qualche ora dopo ed ero oltre il pendio, accanto ai binari, sollevato quasi, dall'aver
preso una risoluzione, dall'essermi promesso di cessare il mio vagare a zonzo, i miei
itinerari fatti più di ritorni che di nuove avventure.
Prima di attraversare i binari, abbandonai il mio diario su una panchina accanto alla sala
d'aspetto.
Avevo compreso che la mia vita era molto più che una serie di pagine solcate di nero, lo
era già prima, e ancora più lo sarebbe stata da quel momento in avanti.
Era fatta di immagini, di ricordi e di voci, che solo nella mia mente avrebbero mantenuto
il proprio colore, senza svanire, e il campionario della memoria mi sarebbe bastato,
perché suo compito era guidarmi nelle esperienze che avrei attraversato, non fornirmi un
rifugio nostalgico.
Così abbandonai quelle carte ingiallite, insieme alla speranza di poter non crescere mai,
di poter sempre tornare. Mi infilai nel sottopassaggio, sorridendo. Chissà, forse anch'io
più in là, da qualche parte, avrei trovato qualcuno, ad attendermi .
Una bambina trotterellò con il suo cane alla stazione, per vedere i treni passare, e si
accucciò con lui su una delle panchine, in attesa. Notò appoggiato accanto a lei un
libro, o un quaderno, dimenticato, pensò, da qualche passeggero distratto.
Lo prese tra le mani ed iniziò a leggere: era un racconto di arrivi e partenze, di luci
ed ombre, di rimpianti e promesse, di vite intrecciate e perse, probabilmente per lei solo
una storia, come una favola, come tante.
Una folata di vento accompagnò l'arrivo del treno, e le scompigliò i capelli e il
vestitino; alzò gli occhi e sorrise alle carrozze ferme, vecchie conoscenti, con sguardo
innocente ed azzurro, come la brezza.
Il treno ripartì, carico di promesse per ogni più disilluso passeggero, e anche per chi
le speranze le aveva già, bellissime, in sé. La bambina intanto aveva ripreso a leggere.
Come se nulla fosse cambiato. Come se tutto dovesse cambiare.
Valeria
Pomba RETURN
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